Gli amici del Bar Margherita, Cuneo come la Bologna degli anni Cinquanta
Terzo appuntamento con la rubrica dedicata ai film girati in parte o del tutto a Cuneo e provincia. Sotto la lente d’ingrandimento la pellicola di Pupi Avati che ha riconosciuto a Cuneo lo status di “piccola Bologna”, nel segno anche di Nello Streri.
Continuano con gli appuntamenti con “Girati in Granda” la nostra rubrica dedicata ai film che, nel corso dei decenni e con alterne fortune, sono stati girati in parte o del tutto in alcune location della Provincia di Cuneo. Il film protagonista di oggi è anche il più recente raccontato finora, vale a dire Gli amici del Bar Margherita, pellicola di Pupi Avati girata nel 2009 e interamente ambientata nella Bologna degli anni Cinquanta.
Come spesso accade quando si parla di Pupi Avati, anche il film del 2009 si configura come una sorta di racconto autobiografico mitizzato con al centro le atmosfere vissute (e idealizzate) dal regista bolognese nel corso della propria giovinezza. Protagonista del film corale è infatti Taddeo, sedicenne della Bologna del 1954 che ha come massima ambizione della propria esistenza entrare all’interno della “fotografia annuale” degli Amici del Bar Margherita. Quest’ultimi rappresentano dei veri e propri miti per il ragazzo, pur non possedendo in realtà caratteristiche tali da giustificare un tale culto. C’è Al (Diego Abatantuono), il capoccia del locale, Gian (Fabio De Luigi), antennista con il sogno di partecipare al Festival di Sanremo, Bep (Neri Marcoré), ricco ma malinconico e timidissimo, perennemente alla ricerca di una fidanzata, Manuelo (Luigi Lo Cascio), vulcanico palermitano emigrato a Bologna, con il chiodo fisso delle ragazze, tanto da definirsi, storpiando il termine scientifico, “linfomane” e tutta una serie di altri soggetti alquanto bizzarri. Gli amici rappresentano un ideale di vita per il giovane Taddeo, ben presto battezzato “Coso” da Al e “promosso” a suo autista personale. Il giovane potrà così toccare con mano quel mondo semplice ma da lui sempre agognato, fino a quando una gaffe del nonno (il recentemente scomparso Gianni Cavina) non ne causa l’allontanamento momentaneo dalla combriccola. Una storia nella quale si ride molto, ma quasi mai in maniera fine a sé stessa, con un alone di malinconia che pervade il film dall’inizio alla fine, sulla falsa riga di altre importanti pellicole del nostro cinema che raccontano l’amicizia virile, come su tutti I Vitelloni di Fellini e C’eravamo tanto amati di Scola.
È difficile definire Taddeo come il classico alter ego che Avati ha portato sullo schermo in molte delle sue pellicole. Lo stesso regista bolognese non ha mai smesso di sottolineare quanto nella scrittura del protagonista abbia attinto tanto al dato biografico suo e di molti suoi coetanei e concittadini, quanto al modo in cui si sarebbe potuto comportare lui stesso adolescente di fronte a determinate situazioni. L’aspetto a cui teneva maggiormente Avati con la realizzazione di questa pellicola, era raccontare una Bologna “più giovane di adesso”, per dirla con Guccini, cioè una piccola grande città popolata da piccoli grandi uomini, per niente appariscenti ed eroici, eppure così incredibilmente affascinanti da raccontare. Un microcosmo personale e generazionale, fatto di storie, aneddoti mai verificabili, scherzi e goliardie varie e sempre pesantissime, scomparso da tempo, non senza una palpabile sensazione di rammarico da parte di chi questa storia la sta raccontando, nel film come dietro alla macchina da presa. Non è, insomma, il semplice racconto della giovinezza del regista, ma, in un’operazione simile a quanto fatto da Fellini con la sua Rimini in Amarcord, la messa in scena dell’adolescenza degli anni Cinquanta come pretesto per portare sullo schermo l’affresco antropologico e cittadino di una Bologna ormai scomparsa. Contribuisce allo scopo anche la splendida colonna sonora realizzata per l’occasione da un cantautore che di Bologna se ne intende come Lucio Dalla.
E ovviamente per riportare in vita una città che non esiste più serviva straniare lo spettatore con scelte di ambientazione non consuete. E così, soprattutto su caloroso invito dello storico Assessore alla Cultura del Comune di CuneoNello Streri, Avati, già premiato dalla città e dallo stesso amico Streri nel 1987 con il premio La Grande Provincia, donato ogni anno al regista del film più visto al Cinema Monviso nella stagione cinematografica appena conclusa (in quel caso il film era Festa di laurea), ha deciso di ritornare in quel di Cuneo, forse la migliore versione del concetto di “piccola Bologna”, con i suoi lunghi portici storici. Una scelta curiosa, soprattutto per un regista che ha legato a Bologna e a tutti i suoi simboli una buona parte della propria cinematografia, ma che si è dimostrata particolarmente efficace. L’impressione che si prova guardando i luoghi dove si svolgono le vicende del film, è di essere davvero di fronte ad un luogo inedito o comunque passato, dentro il quale ci si può riconoscere solo sforzandosi di compiere un’operazione concettuale, non certamente decodificando istantaneamente questo o quest’altro luogo (e ciò vale, ovviamente, soprattutto per i bolognesi).
E allora analizziamo le location cuneesi scelte appositamente da Pupi Avati per portare avanti questa operazione intellettuale. Protagonista assoluta de Gli amici del Bar Margherita è senza dubbio Via Roma, che compare in quasi tutte le scene d’esterno. In ordine di riconoscibilità balza immediatamente agli occhi la scena che vede protagonista la Cattedrale di Santa Maria del Bosco, chiesa all’interno della quale si sarebbe dovuto (finalmente) sposare il povero Bep, che però decide di abbandonare la sua Beatrice all’altare perché perde la testa per la bella Marcella (Laura Chiatti), entraineuse di un locale frequentato dagli amici pagata dagli stessi avventori del bar per far credere al poveretto di essersi innamorata di lui. Il duomo cuneese fa da sfondo ad una scena molto lunga, con tanto di campo-controcampo che mette in evidenza anche i portici che su di esso si affacciano. Una scena, insomma, particolarmente suggestiva anche se si vede solo la parte bassa delle colonne, ad altezza di cinepresa, resa efficace anche dal quadretto costruito da Avati, con tanto di magnifica auto d’epoca bianca ad innalzare letteralmente la sposa. Proseguendo nella “passeggiata” lungo la via storica, la scena in cui Manuelo, soffermatosi a fotografare un’auto, riceve un pugno in faccia dal macellaio, il cui negozio è posizionato in modo fittizio sotto i portici, che nella realtà ospitano un negozio di abbigliamento.
Completamente immutato è invece il calzaturificio della famiglia di Beatrice, che viene incarnato sullo schermo dal negozio “Zeus Calzature” al civico 29 di Via Roma, la cui insegna storica presenta una fotogenia impeccabile. Continuano i portici e continuano le vetrine, fino alla scena in cui, sempre il solito Manuelo, si sofferma un po’ troppo a contemplare gli indumenti intimi femminili in un altro negozio e viene cacciato in malo modo. Infine, l’hotel nel quale Marcella passa la notte con Bep, introdotto dall’inquadratura del balconcino, sito al civico 23 e particolarmente ostico da riconoscere, dato il restauro che ha completamente trasformato la facciata del palazzo rendendolo molto diverso da come appariva nel 2009. L’unico momento in cui ci si allontana da Via Roma, pur rimanendo nel centro cittadino, è quando si raggiunge la casa di Bep, per tentare di farlo nuovamente uscire dopo che vi si è rintanato a seguito dello scherzo con protagonista Marcella. Nel film si parla di Via Siracusa, ma il villino dove vive Bep si trova in realtà sul Viale degli Angeli, altro luogo che risulta particolarmente suggestivo sullo schermo.
L’impressione che si ha guardando Gli amici del Bar Margherita è che sia Bologna sia Cuneo risultino pienamente valorizzate dalla resa cinematografica del maestro bolognese. Poche volte il capoluogo emiliano era apparso così veritiero sullo schermo, nonostante le scene ambientate a Bologna siano ben poche e per lo più d’interno (con la sola eccezione della facciata del Bar). E poche altre volte Cuneo era apparsa e apparirà così bella sullo schermo, nonostante non possa definirsi come protagonista in tutto e per tutto, visto che di fatto anche lei recita una parte che non le appartiene. Un formidabile duplice inganno che ha ottenuto il migliore effetto possibile, consegnando a Pupi Avati anche la cittadinanza onoraria di cui si è dichiarato molto orgoglioso. L’ennesimo pezzo di bravura di uno dei più grandi registi italiani viventi.